«Da due anni, con alcuni amici, andiamo a passare l'estate in un mitologico paese del fondo della Calabria, Scilla, sull'estrema punta del continente di faccia allo Stretto di Messina. È un mare avventuroso quello di Scilla, che poi imbocca lo Stretto a congiungersi con lo Jonio. Un mare dove arrivano gli strani pesci atlantici attraverso Gibilterra. Vi si pesca pesce d'alto mare come le "spatole", e il pescespada, vi passano a volte branchi di tonni che fanno ribollire le superfici e bastimenti bianchi di turisti e carboniere oscure (...) Benché sia un mare tanto ricco di avventure dà poco al pescatore e la stagione della pesca al pescespada, che è la grande pesca del luogo, basta appena a far vivere i pescatori in un modo meno disumano. (...) Gli stracci della miseria sono più evidenti nell'aria tersa e nella luce abbacinante dello Stretto. Non si può vedere questo paesaggio mitologico senza legarlo al popolo che ci vive insieme».
«I miti se ne vanno in frantumi e resta questo contrasto inesorabile nei volti cupi e rassegnati, ma tuttavia pronti alla ribellione. Questa gente somiglia alla mia, siciliana, dei borghi di mare, il bracciante dell'interno della Sicilia e della Calabria, agli oppressi di tutto il mondo. Scendere in mezzo a loro e vivere qualche tempo i loro problemi è un grande insegnamento per un pittore. Intanto, i "luoghi balneari" non ci interessano più e non possono darci più niente di vivo. Ne è più necessario andare a cercare la purezza degli istinti negli arcipelaghi dei mari del Sud. Qua ci sono gli uomini con le loro lotte; e sono le sole lotte dell'uomo che l'artista esprime più o meno esplicitamente nella sua arte».
Renato Guttuso, Richiamo di Scilla, in "Meridione, n. 1, maggio 1951
«[...] Scilla l’hanno scoperta Guttuso, Mirabella e Mazzullo, tre siciliani di Roma nati nelle provincie di Palermo, Catania e Messina. Guttuso, con un quadro dipinto a Scilla,
Ragazzi che pescano granchi, ha vinto il “Premio La Spezia”. Guttuso ha dipinto moltissimi quadri a Scilla. Li abbiamo visti. Egli ha “raccontato” Scilla operando una stupenda per quanto forse involontaria,
contaminatio di Omero con Verga. (Forse domani gli storici d’arte si dovranno interessare a un “periodo di Scilla” per Renato Guttuso). [...] Questa Scilla ha un mare chiaro e profondo, una spiaggia di pietre vergini sulla quale sembrerebbe possibile trovare conchiglie e relitti di naufragi. Una spiaggia siffatta non poteva non essere dappertutto sulla rotta di Ulisse, lunga e capricciosamente segnata dagli dei. Qui, forse ansiosi di terraferma, si nascosero alcuni compagni dell’Itacense buttatisi a mare incontro al canto delle sirene che aveva bucato la cera, nei loro orecchi, applicata dall’astuto eroe al rischioso passaggio dello Stretto; rimanendogli però negli occhi il fascino sgomentevole dell’ulissismo, di quel pauroso viaggio di
conoscenza. Sgomentevole fascino di cui ancora oggi è un segno nella circoscritta ma disperata avventura quotidiana di questi pescatori: negli occhi scrutatori d'infinito dell’uomo che nell'imbarcazione se ne sta in cima all'albero di vedetta. Non è esagerato dire che per essi la cattura del pesce, tutti i giorni, nelle quattro stagioni, è il loro passaggio delle Colonne d’Ercole, e che per essi
conoscenza è soddisfazione della fame, è possibilità di combattere quel terribile mostro. Guttuso, come dicevo, ha capito tutto questo».
«Nei quadri dipinti a Scilla, questi pescatori sono ulissidi, navigatori d’altomare intorno ad Aci Trezza; il pesce, tonno o pescespada, ha per essi la vaghezza irresistibile e misteriosa della Balena Bianca. Questa Scilla sono ragazzi come secche olive, modelli greci passati attraverso digiuni secolari, ragazzi senza parole e senza sorrisi, con vizze accoranti pupille; sono le donne che aspettano anch'esse, per dieci anni e dieci, il ritorno del loro uomo sempre sul mare; [...] sono uomini che sono Giovanni che, catturato un piccolo delfino, una
fera, appena sulla spiaggia lo spartì fra i ragazzi i quali tuttavia sanno benissimo com'è schifosa e puzzolente la carne di quel pesce, che assale persino dentro le reti, strappate con furia sottile, essendo perciò spauracchio, bestia ingrata,
fera. [...] I delfini, queste fere, non hanno un’anima: che Giovanni, pescatore di Scilla, e loro nemico giurato, gliene abbia favolosamente riconosciuta una, è a suo onore e a sua dignità, come Guttuso ne ha dato atto nella sua pittura».
Stefano D’Arrigo, Delfini e Balena Bianca, in “Il Giornale di Sicilia”, 25 settembre 1949