La tromba marina è uno spettacolare turbine di vento che provoca danni ai natanti e lungo i litorali. D’improvviso avanza minaccioso sul mare, per poi sparire misteriosamente nel giro di pochi minuti.
Un fenomeno del genere spaventava i naviganti, che vedevano nella tromba marina un mostro furioso, associato alla figura del drago. Nello Stretto, il turbine di vento è volgarmente detto “cudarrattu”, coda di topo, per la sua forma e il colore grigio scuro.
I pescatori, ma più spesso le loro donne, recitando una formula pronunciata in chiesa nella sola notte di Natale, erano investiti di un magico potere. Sulla spiaggia o in mare, l’improvvisato stregone incrociava un coltello nell’aria, tagliando la tromba marina, che, come per incanto, se ne andava in pezzi.
Al Museo di Palmi si conservano coltelli dalla lunga lama e col manico d’osso bianco per il taglio della tromba marina. Per la marineria locale, erano oggetti di culto le noci a tre gherigli, che servivano a placare le tempeste. Ma anche il corno di bue, da tenere in barca per scaramanzia, e gli inquietanti o grotteschi feticci per scacciare il maligno e la sventura.
I pescatori dello Stretto, tuttavia, osservano ancora scrupolosamente certi rituali propiziatori.
Funzione apotropaica hanno, ad esempio, le fauci smisurate di pescecane o di verdesca, irte di potenti e affilatissimi denti, da appendere in barca o all’ingresso di casa. Questi trofei di pesca sono testimonianze di vita vissuta nel mare.
L’etnoiatrìa studia la medicina popolare, che si avvale talvolta di rimedi assai curiosi. Secondo i pescatori di Tropea, chi ha oltrepassato anche per una sola volta lo Stretto di Messina, può guarire le infezioni superficiali della pelle con la propria saliva.
Un tempo, i “cocciulari” messinesi, coltivatori di mìtili nei laghi di Ganzirri e Faro, nei mercati calabresi dell’area dello Stretto, vendevano la ciprèa. Era una conchiglia marina molto richiesta come amuleto, che si metteva al collo dei bambini per preservarli dal malocchio.